Una sfida infinita
di Paola Paleari
Il cielo, prima ancora di disporsi all’esplorazione artistica, è elemento ricorrente e imprescindibile della storia umana. Nel momento stesso in cui ha preso coscienza di sé, l’uomo ha suddiviso il mondo in due spazi fisici e mentali paralleli: il globo terrestre e la sfera celeste. Nel primo ha riversato le sue energie, lo ha coltivato e plasmato a misura delle proprie capacità; nella seconda ha proiettato aspirazioni e paure, eleggendola a territorio dell’ignoto e delle forze soprannaturali. Da secoli, il cielo rappresenta il più vasto campo di ricerca scientifica e, nel contempo, esistenziale: gli astronomi lo studiano, gli astrologi vi leggono il futuro, i sognatori lo contemplano, gli artisti lo dipingono.
Ian Fisher, pittore trentenne di origini canadesi, appartiene a quest’ultima categoria: le sue opere si focalizzano esclusivamente sulla rappresentazione dell’azzurro – e di tutte le sfumature di colori che le nubi accolgono nella loro mutevole esistenza.
“Per quale motivo ho scelto di concentrarmi sul cielo? Perché è così bello!” risponde candidamente Ian alla mia prima e forse ovvia domanda. “Le nuvole sono elementi misteriosi, in costante cambiamento. Alterano in continuazione la loro essenza e, nondimeno, rimangono sempre se stesse. Il cielo è il regno del caos, che però ubbidisce a regole molto precise. Non è affascinante?”

Come dissentire? Superato il valore suggestivo dell’osservazione e dell’analisi della natura, tuttavia, rimane la difficoltà di confrontarsi con una componente centrale dell’arte moderna: a partire dal Rinascimento, tutti i più grandi maestri hanno fornito la propria personale visione dell’atmosfera e alcuni, come l’inglese William Turner ai primi dell’Ottocento, l’hanno posizionata al centro della propria ricerca, eleggendola a vero e proprio principio espressivo. Ian è consapevole della dimensione e della stratificazione dell’eredità giunta fino a lui, soprattutto in ragione del ruolo che si trova a ricoprire (“Se dipingi, sei un pittore prima ancora di essere un artista”), ma ci tiene a precisare che la questione riguarda più in generale ogni tema e ogni tipo di disciplina artistica.
“In molti pensano che, al giorno d’oggi, sia impossibile creare qualcosa di nuovo con la pittura. In realtà, è una forma d’arte che lascia ancora grande spazio alla sperimentazione. Nel mio caso, per esempio, l’astrazione e l’iperrealismo convivono all’interno della medesima opera, rendendo difficile incanalarla in una sottocategoria definita e riconoscibile”. Questi grandi olii su tela sono in effetti sottilmente ambigui, più di quanto appaia al primo sguardo: di matrice fotografica, partono dalla realtà per superarla, scavalcando la pretesa di oggettività della metafisica senza passare per l’utilizzo di allegorie.
La decisione di concentrarsi esclusivamente sulla consistenza delle nubi, spiega Fisher stesso, è una sfida ai principi della percezione, secondo i quali l’occhio segue una griglia per rappresentare oggetti tridimensionali e relazioni spaziali entro un piano bidimensionale. Eliminare ogni riferimento all’elemento terrestre equivale a negare questa griglia: in tal modo il punto di osservazione viene spostato oltre la semplice rappresentazione dei fenomeni ottici, anche se questi rimangono a tutti gli effetti il soggetto principale dell’opera.

“My job is to draw what I see, not what I know” – il mio lavoro è dipingere ciò che vedo, non ciò che conosco, affermò il già citato Turner in un’epoca in cui si marcava il passaggio dalla tradizione paesaggistica all’interpretazione impressionista. Fisher sa che ciò che abbiamo davanti ai nostri occhi – in questo caso sopra le nostre teste – è oggi accessibile e noto a tutti, sia nel suo stato di fenomeno naturale che di soggetto mediato dalla visione storica. La sua sfida consiste nell’accogliere questo insegnamento, attualizzandolo per i gusti di un mondo che ha già compiuto il giro di boa in termini di ideologie artistiche.
Articolo pubblicato su FAMO MAGAZINE #5, luglio 2014