Mustafa Sabbagh
IL BUON SELVAGGIO

Mustafa Sabbagh è un fotografo italo-giordano appassionato e viscerale, e allo stesso tempo metodico e riflessivo. Dopo aver operato per molti anni nel mondo della moda, Mustafa ha deciso di dedicarsi alla concezione e allo sviluppo di progetti personali, nei quali riversa le proprie pulsioni esplorando gli istinti primordiali e mettendo a nudo – spesso in senso letterale – la natura umana.
Mentre si scorre la sua vasta produzione, popolata di creature in bilico tra cruda realtà, sogno oscuro e sfrenata fantasia, si viene travolti da molti stimoli contrastanti. Il primo impatto è un insieme di attrazione e repulsione, curiosità e fastidio, a tratti quasi paura: sono i sentimenti suscitati dall’incontro con il diverso, con ciò che non riconosciamo. Una volta superata la soglia del timore o della diffidenza, però, ci si riscopre molto più vicini alle sue creature di quanto ci saremmo immaginati. E lentamente si palesa l’equilibrio su cui si regge il suo universo così concreto e insieme totalmente immaginifico, in cui non si trova traccia di compiacenza estetica né di ricerca dell’eccesso a tutti i costi, ma solo il desiderio di comunicare la propria verità.
Abbiamo rivolto qualche domanda a Mustafa per comprendere le origini, le motivazioni e i riferimenti della sua ragionata follia.

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La tua poetica è basata sull’ossessione. Per il corpo, per la maschera, per il soggetto, ma anche per il mezzo fotografico stesso, che nelle tue mani sembra trasformarsi in un amuleto, uno strumento di magia nera. Quando e come nasce l’ossessione per la fotografia, destinata poi a diventare il linguaggio privilegiato per esprimere le tue pulsioni?
La fotografia è il mezzo migliore per indagare le mie ossessioni, il mezzo più incisivo per arrivare al profondo della mia ed altrui anima. Amo la velocità e allo stesso tempo la profondità dello strumento fotografico: mi permette di scavare nella personalità dell’altro in un istante, con un gesto semplice e definitivo come il “click” della macchina.
Nel mio lavoro, il corpo è la rappresentazione della vita organica e spirituale, dei suoi odori e delle sue paure, mentre la maschera non è altro che la sottolineatura in termini visibili dei peggiori vincoli imposti dalla società contemporanea. Mi riferisco soprattutto all’obbligo di essere sempre perfetti, all’importanza data all’apparenza. La mia maschera è diametralmente diversa: è un modo per ribellarsi ad un mondo fatto di cloni. A mio avviso, è proprio il clone il più terribile dei mascherati, e la fotografia è l’unico strumento in grado di svelare e fronteggiare questa condizione.

Hai lavorato molto per la moda: del mondo patinato hai assimilato la pulizia formale, la precisione tecnica e il rigore compositivo. Dentro questa cornice, tuttavia, si agitano la carnalità e l’inquietudine. Quanto è delicata e impegnativa la ricerca di un equilibrio tra queste due forze contrapposte?
La vera sfida risiede esattamente nel trovare il punto di connessione tra i due modi di vivere e vedere. Si tratta, per me, dell’atto creativo per eccellenza. Scegliere la perfezione per dissacrarla: è la strada che mi sono imposto, non per scelta, quanto piuttosto per un mio bisogno sia fisico che intellettuale.
Penso al libro di Jean Genet, Il Funambolo: “Non importa se, paradossalmente, la tua solitudine è in piena luce e l’oscurità formata da migliaia di occhi che ti giudicano, che temono e sperano che tu cada: danzerai al di sopra e al centro di una solitudine desertica, gli occhi bendati, se puoi, le palpebre sigillate. Ma nulla – soprattutto non gli applausi o le risate – ti impedirà di danzare per la tua immagine.
Tu sei un artista – ahimè – , non puoi più sottrarti alla voragine spaventosa dei tuoi occhi. Narciso danza? Civetteria, egoismo, amore di sé – no, si tratta di ben altro. Forse della Morte stessa. Sii dunque solo quando danzi. Pallido, livido, ansioso di piacere o di non piacere alla tua immagine: ebbene, sarà la tua immagine a danzare per te.”

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Tramite i tuoi scatti ci imponi un confronto obbligato con il “lato freak” dell’essere umano, quello che spesso releghiamo al piano della trasgressione e del proibito. Pensi che il tuo lavoro possa contribuire a farci accettare questa parte di noi stessi?
Tu lo chiami “lato freak”… io lo definirei piuttosto “il nostro lato profondamente vero”, la parte che la cultura moralista ha cercato in tutti i modi di negare, di mettere a tacere. Ci siamo abituati a vivere alla luce del giorno secondo regole acquisite, e a nascondere nella notte ciò che è governato dall’istinto. Ma se manca questa metà, siamo esseri incompiuti. Sono convinto che sia il nostro lato oscuro a renderci completi.

Le immagini in cui affianchi cupe figure mascherate a uccelli tropicali altrettanto sinistri mi riportano alla mente il concetto del “buon selvaggio” e la filosofia roussoniana secondo la quale, a partire da uno stato di purezza insito in natura, “ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo”. Ti ritrovi in questa interpretazione?
Assolutamente sì: l’uomo è buono se non si lascia dominare dal progresso come atto di consumo, ma abbraccia questo ideale per rendersi libero. Il Settecento è stato per il pensiero una specie di vitamina che la nostra società “evoluta” sembra aver dimenticato: il colonialismo sia fisico che culturale o le missioni come la conquista di Marte sono la negazione stessa del progresso, sono atti di potenza che certamente non portano a migliorare le menti. Lo sarebbero solo se, per assurdo, Marte diventasse un nuovo punto per osservare la Terra; in altre parole, se accettassimo il diverso e il nuovo come soggetti da cui attingere e imparare e non come entità da sottomettere.

Pur non lavorando più per le riviste, negli ultimi tre anni hai realizzato ben cinque libri. La carta stampata rimane ancora il supporto più adatto per la fruizione della fotografia?
Ho smesso di lavorare per le riviste quando ho capito che era finito il momento storico in cui la rivista riusciva a fornire nuovi stimoli sia a chi la produceva sia a chi la acquistava. Mi dispiace affermarlo, ma purtroppo molte riviste oggi non sono altro che depliant pubblicitari.
Di certo, però, non posso smettere di amare follemente i libri. Adoro toccare la carta stampata, così come impazzisco per l’odore dell’inchiostro sulla carta. Possedere un libro è un’azione sublime, quasi erotica nella sua intensità, che mi fa sentire appagato e nudo di fronte al soggetto ritratto.
Leggere è l’atto più sexy dopo l’esplorazione della pelle.

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Articolo pubblicato su FAMO MAGAZINE #3, dicembre 2013

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